Un’inattività necessaria
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25 maggio 2024
Mc 4,26-29 (Lezionario di Bose)
In quel tempo Gesù 26diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
C’è un tempo per seminare e un tempo per mietere, potremmo dire parafrasando Qohelet e riprendendo la parabola di Mc 4,26-29: la parabola del seme che spunta da solo o forse, meglio, la parabola del contadino che lavora sia con l’azione (seminare, mietere) sia con il non-agire, con il non interferire nel processo per cui il seme germoglia, cresce e fruttifica. Tra semina e mietitura c’è un tempo di inattività che è necessaria affinché il seme spunti da solo, senza l’intervento del contadino. Infatti, c’è un evento che il contadino non può determinare e dunque deve respingere la tentazione di farlo: che il contadino dorma o si alzi, egli nemmeno sa come il seme germoglia e cresce. Una condizione dunque del maturare del frutto è l’inazione, il non forzare i tempi della crescita.
Ma questa inattività non è indifferente né disimpegnata: è colma di quell’azione interiore che è l’attenzione e di quell’azione spirituale che è la pazienza. Dice uno scritto coevo dei vangeli: “Colui che pianta un albero, pensa forse di raccoglierne i frutti finché esso non sia cresciuto, fino al tempo giusto?” (Bar. Syr. 22,7): chi semina attende il raccolto.
Certo, queste cose, dette oggi nei tempi delle tecnologie invasive applicate alle coltivazioni agricole, delle tecnologie e dei metodi di produzione intensiva dell’agricoltura industriale che sistematizzano la non-attesa, che aboliscono i tempi necessari alla crescita violentando le piante e i terreni (e anche gli animali negli allevamenti industriali intensivi), sembrano anacronistiche. Ma dovrebbero indurci a interrogarci sull’ideologia della fretta, dell’ottimizzazione dei tempi, che di fatto altro non è che l’eliminazione del tempo. Un’ennesima versione della nostra inimicizia con il tempo.
Nella parabola, il contadino è chiamato all’azione interiore, alla vigilanza di chi dovrà essere pronto a cogliere l’attimo in cui il frutto è maturo per mietere: “Quando il frutto è maturo, subito manda la falce, perché è giunta la mietitura”. La parabola vuole narrare la pazienza di Dio, la capacità del Signore di attendere i tempi umani, ma essa suggerisce anche a noi una modalità di lavoro che è la non-azione, l’assecondare un processo, l’accompagnare la maturazione senza forzarne i tempi, l’acconsentire all’azione di Dio senza fretta: “La tua fretta non può superare quella dell’Altissimo, perché tu hai fretta per te stesso, ma l’Altissimo ha fretta per tutti gli uomini” (4Esdra 4,34).
Si tratta di imparare la faticosa arte di non agire, di porre un freno alla nostra impazienza, di strapparci alla logica del controllo che tanto ci seduce, di astenerci dal voler intervenire direttamente impedendo la possibilità del terreno di dare frutto nella propria misura (trenta, sessante, cento) e a proprio tempo. Occorre lasciar fare facendo fiducia alla potenza del seme-parola di Dio e alla capacità di accoglienza della terra-cuore umano. Lasciar fare aiutando la crescita con un atto veramente generante: la fiducia.
La fiducia è la non-azione che consente all’altro di trovare la forza e la possibilità di agire, anzi, di crescere, di divenire, di essere. Di essere lui stesso soggetto del suo vivere, non noi per lui e al posto suo.
fratel Luciano