La sequela del portare
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14 agosto 2024
Mt 16,24-28
In quel tempo 24Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 27Perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni. 28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell'uomo con il suo regno».
Il Cristo che cammina sulle vie di Dio e sui sentieri degli uomini, invita la libertà dei discepoli («se qualcuno vuole…») a mettere i propri passi sulle orme di quelli del Maestro.
Ora, questa postura discepolare è un “andare dietro”, un “seguire”: non è un precedere, non è uno slancio da avanscoperta o da apripista, non è un fiancheggiare, ma una sequela.
«Mettersi alla sequela – scriveva Dietrich Bonhoeffer – significa fare determinati passi. Già il primo passo, che segue alla chiamata, separa chi si pone nella sequela dalla sua precedente esistenza. Così la chiamata alla sequela crea subito una nuova situazione. La permanenza nella vecchia situazione e la sequela si escludono a vicenda».
Chi segue non antepone narcisisticamente sé stesso, ma impara a “rinnegare sé stesso”. «Se ricordiamo l’errore di Pietro che, invece, rinnega Gesù dicendo di non conoscerlo, possiamo affermare che la parola “rinneghi sé stesso” vuole appunto dire: non mi conosco, non tengo più conto della mia vita, non mi prendo in considerazione» (C.M. Martini). Ma il rinnegamento di sé non può essere confuso con una pratica di frustrazione ammantata di ascesi, di mortificazione di sé, di svalutazione delle proprie capacità: si tratta piuttosto della liberazione dall’idolatria del proprio ego, troppo spesso ipertrofico, sovradimensionato, ingombrante e soffocante per sé e per gli altri. Rinnegare sé stessi implica fare spazio, dilatare i propri confini interiori, riconoscere che non siamo noi l’ombelico del mondo. Rinnegare sé stessi significa uscire dalle strettoie del nostro io, per sconfinare oltre, per diventare più “capaci”, più “capienti”, più accoglienti.
Così facendo, si inizia a camminare “portando la croce”: una croce che è già lì, che non dobbiamo andare a cercare chissà dove, con una forma di morboso autolesionismo o di autocompicimento. «Che cos'è allora la croce? È il riassunto dell'intera vita di Gesù. Prendi la croce significa: “Prendi su di te una vita che assomigli alla sua”. La vocazione del discepolo non è subire il martirio ma una vita da Messia; come lui anche tu passare nel mondo da creatura pacificata e amante. La croce nel Vangelo indica la follia di Dio, la sua lucida follia d'amore. Il sogno di Gesù non è uno sterminato corteo di uomini, donne, bambini, anziani, tutti con la loro croce addosso, in una perenne Via Crucis dolorosa. Ma l'immensa migrazione dell'umanità verso più vita. Sostituiamo croce con amore. Ed ecco: se qualcuno vuole venire con me, prenda su di sé il giogo dell'amore, tutto l'amore di cui è capace, e mi segua. Ciascuno con l'amore addosso, che però ha il suo prezzo: “Là dove metti il tuo cuore, là troverai anche le tue spine e le tue ferite”» (E. Ronchi).
Infatti, come ricordava ancora il teologo di Tegel, «Dio è un Dio del portare. Il Figlio di Dio ha portato la nostra carne, dunque la croce, dunque tutti i nostri peccati, procurando con questo suo portare la riconciliazione. Per cui anche chi è alla sua sequela è chiamato al portare. In questo portare consiste l’essere cristiani. Come Cristo salvaguarda la comunione con il Padre nel portare, così il portare di chi è alla sua sequela è comunione con Cristo. L’uomo può anche scuotersi di dosso il peso impostogli. Ma in tal modo non si libera affatto del peso, bensì ne deve portare uno molto più pesante, insopportabile. Porta il giogo di sé stesso, che si è scelto da solo» (D. Bonhoeffer).
Così fiorisce la vita, in quel misterioso e paradossale “perdere”, che diviene “trovare vita”. Una vita trovata, perché perduta e donata… Una vita risorta.
un fratello di Bose