La cura di una generazione incredula e sviata


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Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)
Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)

16 agosto 2024

Mt 17,14-21

In quel tempo 14si avvicinò a Gesù un uomo che gli si gettò in ginocchio 15e disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio! È epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e sovente nell'acqua. 16L'ho portato dai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo». 17E Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo qui da me». 18Gesù lo minacciò e il demonio uscì da lui, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
19Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, in disparte, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». 20Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spòstati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile».


Neanche il tempo di tornare dalla scena sconvolgente della Trasfigurazione che la quotidianità con il suo carico di fatiche e di miserie si fa incontro a Gesù e a Pietro, Giacomo e Giovanni in un episodio che l’evangelista Marco ha dipinto con pennellate vivide (cf. Mc 9,14-29). 

Matteo riprende questo episodio con il suo sguardo. Dell’originale di Marco, egli conserva essenzialmente l’esclamazione spazientita di Gesù: fino a quando dovrà sopportare quella generazione incredula e sviata? Domanda che se in Marco trova il suo contraltare nella fede incerta del padre del ragazzo, in Matteo sembra rivolta in primo luogo ai discepoli di allora e, per mezzo loro, anche a noi. A contatto con le difficoltà della vita, la nostra fede è almeno grande quanto un chicco di senape, capace di diventare un grande arbusto che ospita gli uccelli del cielo (cf. Mt 13,31-32)?

Rispondere a questa domanda una volta per tutte è difficile; è normale, per ciascuno, attraversare fasi più serene e magari più esaltanti a cui si alternano periodi bui e incerti. È questa, spinta all’estremo, la sofferenza che imprigiona il ragazzo. Mentre Marco e, sulla sua scorta, Luca descrivono abbondantemente i sintomi del suo male, Matteo usa un termine che si riferisce alla luna e alle sue fasi e richiama la nostra attenzione sugli effetti del male: il giovane si getta spesso nel fuoco e altrettanto spesso nell’acqua. Acqua e fuoco: due elementi fondamentali, senza i quali la vita è difficile se non impossibile, che si oppongono a vicenda e che, associati nella giusta misura, rendono la nostra vita più bella; tuttavia il loro eccesso mette a repentaglio quella stessa vita, nel nostro caso.

 La malattia del ragazzo può essere letta, dunque, non solo come epilessia ma come incapacità di fare unità tra le diverse pulsioni vitali, senza le quali non sarebbe vivo e che pure potrebbero portarlo alla morte. Poche persone giungono alla situazione estrema di questo giovane; guardando a noi stessi, tuttavia, non riconosciamo di essere spesso preda delle tensioni tra sentimenti e moti che ci spingono ora in una direzione e ora in un’altra, rendendoci difficile camminare – facendo di noi, in altri termini, degli sviati?

Di fronte a questo, è sicuramente necessario un intervento forte, che sappia scacciare ciò che fa il male del ragazzo; tuttavia, dobbiamo notare che ciò che il padre chiede – e che Gesù fa – non è un esorcismo, ma un intervento di cura e guarigione. Cura che non esclude una certa rudezza, e stando al testo greco si direbbe che Gesù abbia “sgridato” il ragazzo anziché il demonio; ma che si pone in primo luogo come gesto di amore verso chi è prigioniero del male, non come manifestazione di potere

Proprio dai discepoli, però, arriva una domanda scoraggiante: anziché alla cura, loro si mostrano interessati solo all’esorcismo! La risposta che Gesù dà a questa domanda, riletta alla luce di questo episodio, ci permette di comprendere che la fede non è un’espressione di potenza ma di amore. Del resto già più di mille anni fa un grande padre della Chiesa, san Basilio, scriveva che ciò che è proprio del cristiano è la fede che opera attraverso l’amore (cf. Gal 5,6). Possiamo dunque chiederci un’altra volta: la nostra fede è grande quanto un chicco di senape, sa accogliere gli altri e le loro sofferenze con amore?

fratel Federico