Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male.
Gv 18,23
“Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”
Carissimi amici, carissime amiche,
oggi Gesù ci rivolge una domanda diretta che ci interpella chiedendoci conto delle nostre azioni, sollecitando la nostra responsabilità, ovvero la nostra capacità di rispondere di noi stessi, delle nostre parole e del nostro agire, di vedere chi ci sta di fronte senza i filtri dei luoghi comuni o dei ruoli che ricopriamo.
Siamo nel contesto del processo a Gesù come ce lo narra l’evangelista Giovanni, narrazione che mette in risalto l’exousía, l’autorità di Gesù il quale, in tutto l’arco di tempo che va dall’arresto alla morte in croce, sa mantenere una postura ferma, dritta, quasi padroneggiando la situazione nonostante sia lui la vittima, l’accusato, il condannato.
Gesù viene interrogato con insistenza e arroganza dai capi religiosi (successivamente anche da Pilato, l’autorità politica che paradossalmente, o forse no, sembrerà più benevolo, più ben disposto nei suoi confronti, aperto a un dialogo, anche se si svolgerà su due piani diversi): il sommo sacerdote, i farisei e gli scribi interrogano Gesù e lui con estrema fermezza risponde: “Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto” (Gv 18,20-21). Gesù rinvia i suoi accusatori a tutto il suo ministero pubblico e li invita a interrogare quelli che l’hanno udito. Egli sa di essere stato sempre veritiero e franco, e sa anche che la legge ritiene invalida una testimonianza su sé stessi: “Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera” (Gv 5,31).
Quella di Gesù è una risposta semplice ma che spiazza perché da qualcuno che è accusato e processato ci si aspetterebbe che si difenda, che porti prove della sua ortodossia, al limite che getti la colpa su altri, che accusi a sua volta… ma Gesù non ha nulla da aggiungere a quella che è stata l’evidenza della sua vita: egli ha sempre parlato apertamente perché ha vissuto nella grande libertà di colui che non parlava da sé stesso, ma diceva le cose udite dal Padre (cf. Gv 8,26).
Ma questa libertà non è sopportabile da chi probabilmente vive sottomesso, facendo del suo ruolo lo spazio del suo limitato potere da esercitare sugli altri con prepotenza: “Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: ‘Così rispondi al sommo sacerdote?’” (Gv 18,22). Questa guardia ritiene irrispettose le parole di Gesù che, diversamente da lui, non accoglie passivamente ciò che gli viene chiesto ma ha il coraggio di interrogare e di rinviare l’altro a ciò che già sa, o può sapere.
Questa è una vecchia storia che purtroppo vediamo tutti i giorni ripetersi: ciascuno esercita violenza sull’altro che ritiene in posizione subalterna o quanto meno svantaggiata, ciascuno si sente grande umiliando l’altro, ciascuno nasconde dietro una maschera di straordinaria lealtà all’autorità il suo piccolo io frustrato, che ha bisogno del leader da difendere per sentirsi consistente esercitando violenza sugli altri.
Ma Gesù spezza, come aveva fatto lungo tutta la sua vita, questa catena di violenza e prepotenza e lo fa usando la domanda come un appello alla responsabilità, alla sensatezza di ciò che diciamo e facciamo: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).
Gesù è incredibilmente aperto, aperto anche alla possibilità che l’altro gli riveli del male presente nelle sue parole, ma chiede alla guardia di mostrarglielo: altrimenti quell’azione si rivela gesto di una violenza gratuita, insensata, infondata e quindi irresponsabile. Ed è significativo che a questa domanda di Gesù non ci sia risposta e neppure reazione della guardia, e Giovanni passi immediatamente alla successiva fase del processo: “Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote” (Gv 18,24).
Questo cambio repentino di scena con Anna che manda Gesù da Caifa fa risaltare ancora di più come lo schiaffo della guardia sia un di più, una violenza gratuita e non necessaria (ma esiste una violenza necessaria?) e fa risaltare ancora di più come Gesù in tutto questo resta sé stesso, capace di interrogare e provocare le coscienze, capace di non essere turbato dalla violenza che subisce, capace di non rispondere male per male ma piuttosto di essere in ogni situazione giusto e veritiero.
E questa domanda di Gesù giunge fino a noi interpellandoci sui nostri gesti e sulle nostre parole, chiedendoci sempre da dove nascono e cosa cercano, spingendoci a discernere se il male che pensiamo di vedere nell’altro in realtà non sia in noi stessi.
Lo sappiamo bene: noi spesso proiettiamo sugli altri quel male che in realtà è in noi. La guardia colpisce Gesù perché pensa di vedere nella sua risposta un oltraggio all’autorità, ma in realtà è Gesù, il giusto, che viene trattato ingiustamente da malfattore, lui che per tutta la sua vita non ha fatto altro che “passare in mezzo a noi facendo del bene e guarendo perché Dio era con lui”, come dice Pietro in Atti 10,38.
Gesù ci invita oggi a scavare profondo in noi stessi per trovare la fonte delle nostre azioni e delle nostre parole, per combattere il male che è “accovacciato alla porta del nostro cuore” (Gen 4,7) e imparare la libertà di chi non parla e agisce né per sentito dire, né perché segue quello che fanno e dicono tutti, né per paura di mettersi in “cattiva luce” con chi conta, né per incapacità di essere sé stesso.
Il Signore oggi ci insegna quella libertà che è anche giustizia, capacità di chiamare il bene bene e il male male, di non piegarsi agli intrighi e alle violenze di questo mondo, di amare la verità perché solo essa ci rende veramente liberi (“Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, Gv 8,32).
La libertà ci renderà saldi e franchi, capaci di attraversare la vita come camminando su acque profonde, con leggerezza e risolutezza, la leggerezza di chi non è zavorrato da tanti luoghi comuni di cui siamo bombardati ogni giorno, la risolutezza di chi trova nel Signore la luce e la forza che lo orienta e lo sostiene nel viaggio della vita.
Il Signore oggi ci invita da un lato a non rispondere male per male ma dall’altro a essere capaci di quella franchezza e schiettezza che chiede conto agli altri del loro agire, e che sa a sua volta rispondere di sé stessa.
Gesù nel processo ha saputo tacere e parlare, perché a volte l’unica vera risposta è il silenzio che diventa domanda e l’unica vera domanda è quella parola che sa dire la verità, nonostante tutto e nonostante tutti.
Il Signore ci insegni nel nostro viaggio, giorno dopo giorno e stazione dopo stazione, a essere sempre franchi e liberi, capaci di rispondere a chi ci interpella ma capaci anche di interpellare chi ci sta di fronte.
DILLO CON UNA CANZONE
SAMUELE BERSANI - LE MIE PAROLE