L’altro occhio della speranza
Presentiamo un estratto del Ritiro di Avvento, tenuto a Bose dal priore Luciano Manicardi il 29 novembre 2020.
“Ciò che si spera, se visto, non è più speranza: infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8,24-25). La speranza spera l’invisibile, dunque l’eterno (cf. 2Cor 4,17-18). L’oggetto della speranza è sottratto al potere di chi spera, non gli è disponibile. La speranza non spera ciò che è razionalmente pre-vedibile, ma suppone un’assenza e un ignoto, un non possedere e un non sapere. La speranza è umile e povera, soprattutto è degli umili e dei poveri. In certo modo la speranza suppone anche un non vedere. Un essere nella notte. Eppure la fiducia e la perseveranza che caratterizzano la speranza dicono che essa vede qualcosa. Forse vede l’invisibile, come Mosè che lasciò l’Egitto e senza paura e con saldezza fece il suo cammino “come se vedesse l’invisibile” (invisibilem tamquam videns). Homo viator spe erectus, recita un antico adagio: è la speranza che indica la via all’uomo, che lo guida, lo orienta nel cammino e che lo situa nella posizione eretta propria dell’uomo. Ma che significa vedere l’invisibile? Forse bisogna chiedersi: come vede la speranza? Gabriel Marcel parla di una forma di visione velata: “Non si può certo dire che la speranza veda ciò che sarà; ma essa afferma come se vedesse; si direbbe ch’essa attinga la sua autorità da una forma di visione velata, ascosa, della quale non può godere, ma su cui può fare assegnamento”. Una visione su cui si può fare assegnamento è quella fondata sulla memoria, e quella di cui non si può godere è quella del futuro che ancora ci sfugge. Forse questa visione velata è quella dell’occhio che piange, dell’occhio velato dalle lacrime, come già abbiamo ricordato. Questo sguardo velato dalle lacrime vede la morte e invoca la resurrezione. Vede il dolore e anela la sua redenzione. Ricorda la sofferenza e opera in modo da non ripeterla.
Gli occhi velati dalle lacrime vanno al di là del vedere e del sapere e ci avvicinano “all’essenza delle cose: alla verità, almeno a quella del dolore e della speranza”. Ora, tutto questo ha un sorprendente riscontro biblico. È l’Apocalisse che ce lo mostra: l’Apocalisse spera l’insperabile, spera la morte della morte, la fine del peccato e del male, spera un Dio che asciugherà le lacrime da tutti i volti. Questa immagine della salvezza è l’equivalente su scala universale della beatitudine evangelica: “Beati gli afflitti perché saranno consolati” (Mt 5,4; cf. Lc 6,21: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”). Un mondo simile è sperato da chi soffre, dalle vittime della storia, non da chi è soddisfatto. Questa speranza, o forse, la speranza cristiana sempre, è la speranza sperata dai poveri. E in tale speranza consiste anche la loro beatitudine. Ma questa immagine del mondo salvato nasce anche dall’esperienza storica dell’asciugare le lacrime a chi soffre, dall’attiva compassione, dal rifiuto dell’indifferenza, dalla lotta contro il male. L’occhio della speranza è l’occhio della compassione, l’occhio che sa vedere il dolore del mondo e crederne la redenzione.
Del resto, ricorda Paolo, la speranza si forgia nelle tribolazioni e nelle prove: “La tribolazione produce la perseveranza, la perseveranza la qualità provata, e la qualità provata la speranza” (Rm 5,3-4). Essere “gioiosi nella speranza e perseveranti nella tribolazione” (Rm 12,12) sono aspetti di un’unica realtà. La speranza, poi, che per Paolo ha una dimensione creazionale e cosmica, si accompagna a gemiti e pianti: essa si fa strada in mezzo alle “sofferenze del momento presente” (Rm 8,18). Il discorso escatologico presente nei sinottici getta uno sguardo disincantato sui mali che affliggono il mondo e la storia (guerre e carestie, terremoti e pestilenze) e invita a non vedervi un segno della fine del mondo, ma un inizio, l’annuncio di una nascita, l’inizio delle doglie, come di un parto (cf. Mc 13,5-8). Questo sguardo consente la perseveranza (ypomoné), o se vogliamo, la resistenza, la pazienza, la sopportazione, che è una delle declinazioni della speranza (cf. Mc 13,13). Nella redazione lucana di questo discorso, l’acme delle tribolazioni storiche e cosmiche viene assunto da Gesù come momento topico in cui il credente può levare il capo (e alzare gli occhi) “perché la sua liberazione è vicina” (cf. Lc 21,28). Là dove tutti vedono rovina e catastrofe, lo sguardo del credente intravede la liberazione incipiente. È per l’avventura del credente nel mondo come per chi intraprende un viaggio di scoperta: non si tratta di andare in cerca di nuovi posti, ma di “avere nuovi occhi” (Marcel Proust).
Questo sguardo paradossale della speranza non si limita a opporsi, come al peccato, alla disperazione, ma svela di avere una certa contiguità con essa. Anzitutto è importante l’esperienza della delusione, che può divenire liberazione dall’illusione, discernimento della vacuità e frivolezza di ciò che chiamavamo speranza, aiuto a fare chiarezza tra la speranza e le speranze, tra l’assoluto “io spero” e il relativo “io spero che” (Gabriel Marcel). A volte avviene che il venir meno di speranze (al plurale), di piccole ma enfatizzate e ingombranti speranze, consente una purificazione dello sperare e l’emergere nella persona di una speranza fondamentale, che ha a che fare con l’essere e non con l’avere. Ma poi l’edificazione di una speranza non fittizia può trovare un paradossale ma essenziale aiuto nell’esperienza della disperazione. Che è sì quell’anticipazione indebita del non-compimento che si oppone all’apertura al futuro della speranza, ma è anche uno stato di interiorità acutizzata ed esasperata, una stasi dello spirito che può consentire una disincantata e penetrante visione di sé e della realtà.
Il buio della disperazione, assunto nella paradossale (ossimorica) speranza cristiana, si trasforma in visione luminosa, visione che non elimina il negativo dal reale, ma lo attraversa. E allora si verifica nuovamente il miracolo del cieco che vede meglio e più in profondo dei vedenti. La disperazione di Giobbe lo porta a vedere le inconsistenze delle affermazioni teologiche correnti e a sovvertirle, e soprattutto incontra l’approvazione di Dio stesso. Forse è vero: “L’umanità in stato di disperazione è più vicina a salvarsi che in altri stati … Ogni disperazione è di natura religiosa” (Thomas Mann). E comunque la speranza si costituisce al cospetto della disperazione: “Può esservi speranza solo quando interviene la tentazione di disperare, la speranza è l’atto mediante il quale questa tentazione è attivamente o vittoriosamente superata”.
Lo stesso discorso sulla speranza ha una sua plausibilità e una sua autenticità se accetta di ascoltare e incontrare le storie di ordinaria disperazione che affollano il nostro quotidiano e di misurarsi con esse. La speranza cristiana trova i suoi autorevoli giudici nei disperati della terra, così come la carità cristiana trova i suoi giudici nei sofferenti della terra: questo rivela la pagina matteana del giudizio universale che pone la storia umana e la chiesa stessa sotto l’autorità di coloro che patiscono (cf. Mt 25,31-46).
Tags: cura del spirito, interiorità