Chiamati a riconoscersi con-servi
22 maggio 2024
Mt 20,1-16 (Lezionario di Bose)
In quel tempo Gesù disse: «1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Un comportamento che ancora ci sorprende, quello del padrone della parabola, nonostante abbiamo ascoltato tante volte questo testo. Ci sorprende perché fatichiamo a non focalizzarci solo sull’agire del padrone, un padrone come non ci è dato di conoscerne molti: con gli uni contratta l’entità della paga, ad altri assicura unilateralmente un compenso equo, agli ultimi offre la dignità del lavoro.
Ma, come sempre, la parabola evangelica ci è narrata non per parlarci del padrone, ma per parlare a noi, non per spiegare un comportamento insolito, ma per ammonirci sui rapporti tra i servitori. Insomma, ancora una volta è di noi che parla la parabola, ancora una volta risuona la voce profetica di Natan a David: “Sei tu quell’uomo!”.
Dovremmo sapere, infatti, che questa parabola non narra di equa retribuzione o di gabbie salariali, né di sfruttamento del lavoro agricolo, bensì della grazia immeritata accordata a noi gentili di divenire coeredi della promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza. E dovremmo anche essere consapevoli delle conseguenze che questo comporta nella nostra vita ecclesiale, nel nostro comportamento verso il popolo di Israele come verso i fratelli e le sorelle della nostra comunità.
Troppo spesso infatti il nostro occhio si fa cattivo nel confronto dell’altro: l’occhio, che la vita di comunione avrebbe dovuto dilatare come il cuore, diventa meschino; l’occhio, che l’assiduità con la parola di Dio avrebbe dovuto rendere trasparente, diventa opaco; l’occhio, che il collirio della misericordia di Dio avrebbe dovuto guarire, diventa capace di discernimento perverso, capace di scorgere la minima pagliuzza ma di additarla come trave.
A volte, come ci fa constatare con amarezza il padrone della parabola, il nostro occhio e il nostro cuore sono sì capaci di scorgere l’altro, ma solo nella speranza di trarne un vantaggio: se a chi ha lavorato solo un’ora viene dato un denaro, a me che ho lavorato dodici ore perché non dovrebbero spettare dodici denari? Vogliamo piegare la misericordia del padrone al nostro interesse, siamo incapaci di rallegrarci assieme ai nostri con-servi. Ci è stato concesso di lavorare l’intera giornata, l’intera nostra vita nel campo del Signore e non ci basta: vogliamo disporre noi dei suoi beni!
Nella vita cristiana, nelle nostre comunità, nella Chiesa sono spesso gli ultimi arrivati, le persone più giovani a mettere alla prova la qualità dell’occhio di quelle più anziane, e sovente è tramite loro che riceviamo dal Signore, gratuitamente, qualcosa che è e rimane suo: fuori da una comunione di vita otterremo al massimo qualcosa di nostro, di dovuto, ma che ci separerà dagli altri e dal Signore: “Prendi ciò che è tuo e vattene!”. È nella comunità cristiana, nella fatica della condivisione che ci è restituita la trasparenza dell’occhio e del cuore, il discernimento per la vita e non per la morte; è nella comunità di con-servi chiamati ormai amici che ci diventa possibile una fraternità non possessiva né abusante, una comunione libera, un guardare all’altro, all’altra non con l’occhio che scruta una preda o individua un rivale ma con l’occhio di Dio.
È il riconoscerci, con stupore rinnovato, operai della medesima vigna, senza invidia né gelosie, che ci rende servi del Signore e non di noi stessi, uomini e donne libere che servono un Servo sapiente (cf. Sir 10,25). Non a caso questa parabola è entrata nel grande annuncio della notte pasquale, là dove – al termine della fatica quaresimale, segno del cammino di passione – la comunità cristiana accoglieva i suoi catecumeni, gli ultimi arrivati, affinché da quel momento condividessero il grande dono dell’eucarestia, ricevessero le energie del Risorto, si scoprissero con-servi, con-redenti e con-risorti con Cristo.
fratel Guido