La via del diventare dimora
22 giugno 2024
Gv 14,23-26
In quel tempo Gesù disse 23: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
“Se uno mi ama…”: per tre volte Gesù scandisce con questa premessa il suo insegnamento sull’ascolto fiducioso ed obbediente, in questo capitolo (cf. Gv 14,15.23.28). Questa è la condizione per ogni discepolato: una sequela ascoltante non determinata immediatamente da decisioni, scelte, volontarismi, ma dall’amore possibile e non scontato.
Lo sento come uno sguardo benevolo e condiscendete su di me, sulla fatica, quasi ridicola dopo così tanto tempo, per combattere la paura di Dio sempre subdolamente presente ed entrare in un quadro di amore come motivazione e conseguenza. Imparare ad amare per poter obbedire in pienezza di umanità, con le sue gioie, le fatiche, le cadute, il perdono riconciliante.
Dal “Rabbi, dove dimori?” degli inizi (cf. Gv1,38) si giunge al “Noi faremo dimora presso di lui”: il Noi della perfetta divina relazione d’amore che si incarna ed inabita nell’avventura del discepolo.
In questa prospettiva, custodire le parole di Gesù è richiesto come opera dell’uomo; insegnare e ricordare è rivelato essere l’opera dello Spirito: non siamo lasciati in balia delle nostre povere forze davanti ad una precettistica, ma agiti dalla Divina Presenza.
La Parola di Gesù genera relazione perché frutto di relazione nel suo essere ascoltata prima che detta, dunque spossessata ed umile. Imparare allora a riconoscere lo Spirito santo come fonte dell’umiltà personale ed ecclesiale, nel suo essere l’incarnazione dell’umiltà ascoltante che è in Dio.
Nella storia dei credenti e della Chiesa dell’occidente, forse tanta incomprensione del servizio realmente svolto, tanto rinfacciare una presenza orgogliosa ed insopportabile tra gli uomini, trova la sua origine nella scarsa sottolineatura dell’azione dello Spirito, sentito e presentato non come libero soggetto agente che rimane Altro, ma come conseguenza di potenti azioni ecclesiasticamente definite e gestite, presenza garantista avulsa dalle situazioni, di cui usufruire in automatico.
Una Chiesa vista come colei che possiede ed amministra lo Spirito, non che lo riceve e ne viene guidata! Contraddizione con ciò che le stesse parole delle preghiere eucaristiche mostrano bene: il potere di chi agisce come presidente della comunità celebrante è implorare efficacemente Dio perché mandi lo Spirito sulle specie e sulla comunità, non esserne il detentore e generatore.
La via di Dio è proprio quella dell’azione umile che si attua nelle vite di singole persone, con il loro peso relativo o addirittura insignificante, non in manifestazioni eclatanti (vedi, nel versetto subito prima, la domanda del discepolo). Ciò che manifesta il Dio cristiano che Gesù ci rivela e che spesso contesta le nostre convinzioni poco evangeliche, è la libera via dell’amore obbediente che si gioca nelle relazioni, ad immagine e somiglianza del modo della Triunità.
Il tutto si incarna e concretizza, il più delle volte, in una santità ordinaria, nascosta, spesso poco significante ma di largo respiro che, proprio per questo, diventa testimonianza riconoscibile da molti dell’azione dello Spirito, più che delle bravure umane. Dunque disponibilità ed ascolto accogliente, non virtù eroiche che scivolano spesso in autoreferenzialità insignificante.
fratel Daniele