Dio ama e vuole la vita dei suoi figli

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2 novembre 2024

Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 6,37-40 (Lezionario di Bose)

In quel tempo Gesù disse:" 37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno».


Fin dall’antichità più remota l’uomo sente il bisogno di far memoria di coloro che ha amato e che gli sono stati strappati dalla morte. Ogni cultura e ogni religione ha elaborato i suoi riti per fare questo. Nel libro del Siracide ad esempio, troviamo le parole che esprimono chiaramente questo bisogno umano: “Figlio, versa lacrime sul morto, e come uno che soffre profondamente inizia il lamento; poi seppelliscine il corpo secondo le sue volontà e non trascurare la sua tomba” (Sir 38,16).

Ma nell’esperienza cristiana questa memoria acquista tratti peculiari e al contempo paradossali: la memoria della morte infatti non è tanto (o non è solo) esperienza di perdita, di mancanza, di assenza (anche se queste dimensioni umanamente ci sono e restano), ma è fondamentalmente esperienza di luce. Si fonda sulla speranza e al contempo fonda la speranza. Far memoria della morte, per il cristiano, significa far memoria della vita. Della vita che è più forte persino della morte.

Il breve testo evangelico di oggi, scelto appunto come “buona notizia” per il 2 novembre, memoria dei morti, ci dice proprio questo: il desiderio di Dio per l’uomo è la vita eterna, non la morte. Il verbo al centro della sua relazione con l’uomo non è “cacciare fuori” (v. 37), non è “perdere” (v. 39), ma “risuscitare”, rialzare, ridare vita (vv. 39.40). Chi rende visibile e credibile questo desiderio di Dio è Gesù, che è venuto nel mondo per “dare la vita”, e che “ha deposto la sua vita” (Gv 10,18) per dare a noi la vita. Sceso nel sepolcro (cf. Mt 27,57-61), nel profondo della terra (cf. 1Pt 3,19) ne è riemerso per trascinare con sé tutti i prigionieri della morte. Adamo e dopo di lui ogni uomo è afferrato e strappato via dagli inferi perché la morte non abbia più alcun potere su di lui.

E l’uomo in tutto questo? Può solamente attendere e sperare? 

Il testo di oggi, se da un lato ci dice che l’iniziativa è tutta di Dio, dall’altro ci comunica anche tre espressioni verbali che interpellano l’uomo, e che suggeriscono, mi sembra, come vivere l’attesa: sono le espressioni “vedere il Figlio”, “credere in lui” (v. 40) e l’andare a lui (indicato da Gesù come “venire a me”, v. 37). Vedere, credere, mettersi in cammino: tutti verbi che acquistano senso in una relazione, la relazione con Gesù.

Perché la vita non sia vinta dal dolore e dall’angoscia di fronte all’ineluttabilità della morte (degli altri e, di riflesso, nostra) ci è suggerita la via della relazione con colui che la morte l'ha vinta. Ecco allora l’invito: guardare la quotidianità cercando le tracce del suo passaggio, far fiducia nella sua presenza volta al bene, acconsentire ad un cammino dietro a lui e con lui capace di attraversare la morte… tutto questo dona luce a qualcosa che in sé luce non ne ha!

Far memoria dei morti allora è far memoria di una promessa di vita. È anche gratitudine per l’amore vissuto, nella consapevolezza che nulla di esso è perduto, ma che tutto è definitivamente salvato. Far memoria dei morti, nella fede, è far memoria che siamo amati.

sorella AnnaChiara


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