“Semplici servi”, coloriamo la nostra parte dell’opera
12 novembre 2024
Lc 17,7-10
In quel tempo Gesù diceva ai discepoli: «7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»».
Gesù oggi descrive una situazione normale nella società dell’epoca: compito dello schiavo era servire, senza aspettarsi nulla in cambio, niente gli era dovuto. Immagine che può urtarci oggi che predichiamo diritti uguali e universali (?), ma chiara, accessibile e comprensibile per chiunque ai tempi di Gesù. Lo schiavo compie il suo dovere e il padrone non è tenuto a essergli grato. Ma nell’ultimo versetto cambia qualcosa, il riferimento non è più al padrone ma al servo. È a lui che Gesù vuole che rivolgiamo la nostra attenzione.
Davvero non abbiamo mai ospitato dentro di noi quel bisogno di riconoscimento che caratterizza spesso il nostro agire quotidiano? Mai abbiamo ripetuto dentro di noi: “Mi sottometto, eseguo ordini, faccio ciò che mi viene chiesto, questo significherà qualcosa? Qualcuno vedrà e mi riconoscerà questo merito!”.
Se siamo onesti, nessuno di noi può dirsi esente dall’aver coltivato pensieri di questo tipo. Cresciamo all’interno di una società che si basa sui meriti e sulla transazione commerciale: dai mercati alle relazioni, tutto viene ridotto a puro scambio di favori, di riconoscimenti, di like.
Dov’è allora lo spazio della libertà, lo spazio della gratuità? Nessuna esistenza può essere riconosciuta libera da queste dinamiche che eliminano la possibilità di una relazione vera, non alla ricerca di secondi fini o soddisfazioni personali?
Gesù con una formulazione non immediatamente comprensibile, vuole oggi indicarci cosa significa vivere da suoi discepoli, ci suggerisce la via per essere non servi e serve ma figli e figlie. E la sua parola, di nuovo, non vuole creare bravi figli e brave figlie, che saranno premiati per la loro buona condotta. La sua parola indica che agire come questo servo ci rende uomini e donne dalle esistenze libere, smarcate da attese e aspettative mortifere che hanno il potere di lacerarci dall’interno, nella continua ricerca di un “di più” di lode, di riconoscimento, forse anche alla continua ricerca e pretesa di un “di più” di amore. L’amore che pensiamo ci sia dovuto per i nostri meriti!
“Siamo semplici servi. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (v. 10): oggi Gesù ci chiede di accogliere queste sue parole come parole di libertà. Possono non sembrarci tali, ma queste parole sono le chiavi per sciogliere le catene che stringono la nostra vita nelle spire delle aspettative, del riconoscimento, dello scambio, delle attese.
Questi criteri sono i veri padroni che ci rendono schiavi, le sbarre di prigioni che ci autocostruiamo attorno. Gesù ci offre le chiavi per poter aprire quelle prigioni dall’interno. Essere “semplici servi” ma dell’unico e vero Signore, quello che ci chiede solo di essere chi siamo: figli e figlie cui gratuitamente è stata donata la vita e gratuitamente viene continuamente offerta la possibilità di viverla in pienezza e nella libertà. “Semplici servi” che gioiscono nel servire il Padre, semplicemente onorando la vita ricevuta in dono. “Semplici servi” che sanno gioire nel collaborare a un’opera che ancora non conosciamo e non vediamo ma che richiede il nostro “fare quanto dobbiamo” (cf. v. 10) colorando il nostro angolo di mondo, con il nostro personalissimo colore, immettendo gratuitamente l’amore di cui siamo capaci. Forse nessuno vedrà quella sfumatura, ma è la nostra, ed è ciò che renderà la nostra vita sensata.
sorella Elisa