Spinto verso la fatica del deserto
21 febbraio 2021
Mc 1,12-15
I Domenica di Quaresima
di Luciano Manicardi
In quel tempo, 12 subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto 13e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. 14Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, 15e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
La prima domenica di Quaresima presenta sempre il testo evangelico delle tentazioni di Gesù. Quest’anno ci viene proposta la versione di tale episodio nella redazione estremamente concisa del vangelo secondo Marco (Mc 1,12-13) seguita dalla pericope che dice l’inizio della predicazione di Gesù (Mc 1,14-15) e che tralasciamo perché già perché commentata nella III domenica dell’Ordinario. La pagina evangelica inizia in modo inatteso e brusco: “E subito lo Spirito scaccia Gesù verso il deserto”. L’immediatezza dice che Gesù non si è preparato a questa andata nel deserto, che la cosa giunge improvvisa. E il verbo il cui soggetto è lo Spirito, il verbo greco ekballein (sospingere, scacciare) esprime una certa violenza, una costrizione. Lo Spirito getta fuori, spinge Gesù nel deserto. A dire che l’azione spirituale è un’azione non coincidente con il desiderio umano. Gesù si lascia trascinare, ma non è una sua iniziativa, una sua scelta l’andare nel deserto. Forse si vuol significare che solo la forza dello Spirito può consentire di reggere la prova del deserto e che andarvi per eroismo o protagonismo spirituale è un atto spiritualmente suicida. La radicalità del deserto può affascinare, ma essa rigetta chi vi si inizia senza la mozione dello Spirito.
Cosa avviene a Gesù? Dopo l’esperienza del battesimo in cui Gesù è tra la folla, accanto a Giovanni il Battezzatore, e ascolta la voce dal cielo che lo proclama figlio di Dio, ecco che la luminosità e la maestosità di questa esperienza si mutano nella discesa nel deserto che è invito all’interiorità, anzi, un imperioso comando all’interiorità. Se è vero che è necessario discernere il proprio desiderio per conoscersi e saper scegliere la propria vita, è altrettanto vero che c'è anche una distanza tra il nostro desiderio e la vita dello Spirito in noi. E che ci sono resistenze da vincere per entrare nella vita dello Spirito. La nostra nascita alla vita dello Spirito è dolorosa, frutto di lotta e costellata di resistenze. Di Paolo si dirà in At 20,22 che è costretto dallo Spirito ad andare dove lui non vorrebbe minimamente andare. Intravediamo lo Spirito anche dietro a quell’allos, quell’altro che condurrà Pietro dove lui non vuole (Gv 21,18). È l’altro Paraclito (Gv 14,16). Lo Spirito appare come volontà di Dio che può entrare in conflitto con la nostra, ma da cui siamo chiamati a lasciarci vincere, ovvero, ad assumerla come nostra. Del resto, questa violenza accettata da Gesù e fatta sua, questa che è violenza dello Spirito, richiama la violenza della parola di Dio che strappa Abramo dalla sua terra e gli impone di andarsene verso un luogo sconosciuto: “Vattene!” (Gen 12,1). In realtà Abramo è in una solitudine radicale anche se parte con la sua gente. Egli parte verso il vuoto che il Signore, non Abramo stesso, riempirà. Anzi, sarà un vuoto che quando la promessa di Dio sembrerà per grazia colmare con il dono di un figlio, Dio stesso provvederà ancora a ricreare chiedendo il sacrificio del figlio (Gen 22,1-2).
L’azione spirituale è dunque azione di profondità, di discesa, di abbassamento. Non di innalzamento, non di salita, ma anzitutto di contatto con il basso. Dice un apoftegma dei padri del deserto: “Se vedrai un giovane salire al cielo di sua volontà, afferralo per un piede, e scaraventalo a terra, poiché ciò non gli serve”. Non si sale se non partendo dal basso, non ci si alza se non si è caduti, se non si è conosciuto e incontrato l’inferno interiore e nominato e combattuto il nemico che è in noi. Anche nel testo di Marco quando si parla di Gesù che stava con le fiere e gli angeli lo servivano si inizia dal basso, dalle fiere, dalle bestie selvagge: si tratta di un movimento verticale ma dal basso verso l’alto, non il contrario. Chi conosce il quadro di Caravaggio “La conversione di san Paolo” ricorda che Paolo è a terra, sbalzato dal cavallo, e che, nella sua caduta, le braccia tese verso l’alto esprimono l’inizio della salita ed egli sembra quasi spinto da una forza
antigravitazionale: la caduta è l’inizio dell’ascesa. Il culmine della scala di cui parla Benedetto nella sua Regola è l’umiltà (RB VII,62ss.), l’adesione all’humus, alla terra. Chi inizia dall’alto invece si espone all’illusione, all’autoinganno. È sedotto dal proprio stesso procedere spirituale, è sedotto dall’angelo e finirà, come ricorda argutamente Pascal, col “fare la bestia”. Dice un pensiero di Pascal: “L’uomo non è angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo faccia la bestia”.
Il testo di Marco è discreto: non dice in cosa consista la tentazione. Non vi è il dettagliare la tentazione in tre momenti come in Matteo e in Luca. Tutto resta avvolto nel silenzio. Silenzio che è anche del testo stesso, non solo di Gesù che non si affida nemmeno alle parole della Scrittura come negli altri sinottici. Qui al posto della parola della Scrittura vi è il silenzio. Silenzio per restare in se stesso, per abitare il proprio spirito e non dissiparsi all’esterno con parole, per restare concentrato. Silenzio per scoprire che il mondo è in noi, non banalmente fuori di noi. Per sapere che i miraggi e le tentazioni di mutare miracolosamente la durezza delle pietre nella fragranza del pane nascono nel cuore; che le tentazioni della potenza e della gloria sono i sogni che coltiviamo in noi; che le illusioni di imporci agli altri e attirarne l’attenzione con imprese prodigiose come gettarci dal tempio ed essere salvati, sono fantasmi che abitano in noi. Davvero il silenzio fa verità e ci suggerisce di non proiettare sugli altri e sull’esterno ciò che è in noi: “Guarda in te stesso e scopri il male che è in te. Se lo vedi in te eviterai di condannarlo e giudicarlo negli altri”.
Qui si situa anche la potenza della solitudine. Nella descrizione di Marco colpisce che, dopo aver parlato del deserto in cui stava Giovanni come un deserto popolato da moltissime persone che accorrevano a lui, un deserto umanizzato, ora, parlando del deserto in cui si inoltra Gesù, ci venga presentata una landa solitaria, spopolata, in cui i soggetti che si fanno vivi sono attori della vita interiore e invisibile: lo Spirito di Dio e il Satana, le fiere e gli angeli. La solitudine è la condizione che consente l’affiorare dell’interiorità. Essa è memoria della nostra unicità. Ci ricorda che l’imperativo a cui non possiamo sottrarci pena il tradimento della vocazione originaria e fondante di ciascuno di noi, della nostra immagine e somiglianza con Dio, è la libertà, con cui possiamo realizzare noi stessi, cioè obbedire all’unicità irripetibile che Dio ha voluto per ciascuno di noi. La lotta del deserto è anzitutto in questo abitare solitudine e silenzio. Che normalmente sono dimensioni rare, a cui non siamo abituati e a cui cerchiamo di sottrarci. Inoltre, il potere semplificante ed essenzializzante di solitudine e silenzio fa emergere i lati più oscuri e tenebrosi che sono in noi. Ma proprio lì si situa il lavoro di verità che queste dimensioni operano per noi. Che non sono il fine cui giungere, ma la strada da percorrere per arrivare al fine dell’incontro con il Signore e dello stare con lui, al fine dell’incontrare gli altri in verità e carità.
La fatica del deserto è ben espressa nella pagina evangelica dal verbo “stare”, “dimorare”, anzi, letteralmente, “essere”. Gesù erat in deserto, non manebat; Gesù erat cum bestiis. Non è solo un rimanere, ma qualcosa che ha a che fare con l’edificazione dell’essere stesso della persona. Gesù sta senza fare nulla, senza fare nulla che non sia un’azione e un’attività interiore. Nel deserto Gesù finalizza il fare all’essere. Gesù fa esperienza della durata. Silenzio e solitudine sono le condizioni per fare esperienza della durata e l’esperienza della durata è la condizione della contemplazione. Che è lavoro di unificazione e pacificazione. Come avviene per Gesù. Infatti, se Gesù annuncia, subito dopo i 40 giorni nel deserto, che “Il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15) è perché quel regno Gesù l’ha conosciuto in se stesso, nella pace tra bestie e angeli, tra inferno e cielo, nel suo aver continuato ad abitare la parola ricevuta dall’alto “Tu sei mio figlio” (Mc 1,11) e a lasciarsi guidare dallo Spirito santo mentre si trovava nel confronto con Satana. In quell’esperienza del deserto Gesù vive in sé ciò che avviene nel mondo, o meglio fa di se stesso il luogo del mondo riconciliato. Gesù è l’umanità riconciliata, l’umanità nella pace. Gesù è il Regno di Dio davvero vicinissimo. L’era messianica si apre perché ciò che è destinato al mondo è avvenuto nella persona di Gesù. Questo evento di riconciliazione profonda tra forze infere e potenze celesti, questa pace messianica profetizzata da Isaia, Gesù l’attua in se stesso, in lui avviene la riconciliazione e la pace. Gesù è spazio di pace e di unità, di unificazione e riconciliazione. Egli riesce ad assorbire la violenza delle bestie selvagge senza cadere nel disumano, riesce a convivere con le potenze divine e angeliche senza innalzarsi nel sovrumano. Gesù custodisce la postura umana e si lascia docilmente guidare dallo Spirito di Dio. Divenendo così esempio del battezzato: “Tutti quelli che sono guidati dallo
Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14). Gesù si lascia guidare dallo Spirito nel deserto e lì vive la sua figliolanza divina, la sua immagine divina, la sua creaturalità abitata dalla parola di Dio che lo rende figlio e dallo Spirito che lo fa vivere come figlio.