Violenza e mitezza
2 aprile 2021
Gv 18,1-19,37
Morte di Gesù
di Luciano Manicardi
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Ogni venerdì santo ci ricorda che al cuore della fede cristiana e dei suoi racconti fondatori, i vangeli, vi è una storia di violenza. E una violenza non più solo accennata, non più sottile, non più celata malamente tra le pieghe del quotidiano – come pure più volte la Scrittura, oltre che l’esperienza quotidiana, ci mostra – ma sempre più imperversante, debordante, aggressiva, spregiudicata, impudica, una violenza che investe, come in un contagio o in un movimento di corruzione, tutti gli ambiti del quotidiano. E soprattutto si impadronisce di tutti gli ambiti di una persona: la psiche e il corpo, la mente e i sentimenti, la ragione e le emozioni. Fino a stravolgere la persona. Ma poi si impadronisce anche e determina le dinamiche di un gruppo: la violenza si deresponsabilizza facilmente quando è condivisa. E proprio nella irresponsabilità trova il suo terreno di coltura, la sua forza e determinazione. La violenza, a volte gemella della codardia e della pavidità, spesso partorita dalla paura e dalla disperazione, ma altrettanto spesso razionalmente progettata, calcolata a tavolino, pianificata, organizzata per far male, per danneggiare, per distruggere, è anche ciò che perfino l’evangelista Giovanni ci pone di fronte nel suo racconto della passione. Dico “perfino” Giovanni perché il suo vangelo è quello che più ha mostrato la trasformazione di una vicenda umanamente squallida di violenze e menzogne, di aggressioni e complotti nascosti, di accuse inventate e di ingiurie, di false testimonianze e percosse fisiche, come ci narrano i Sinottici, in una vicenda di gloria. Una storia di odio subìto che diviene storia di amore donato. Giovanni ha trasformato la vergogna in gloria, la croce, supplizio infimo, in elevazione, la morte nell’atto di un vivente, la fine in un compimento, la brutalità umana, in occasione di manifestazione della verità, ovvero di manifestazione della pienezza di Dio (sulla croce Gesù dona lo Spirito e vince l’intransitività della morte in atto di trasmissione del principio spirituale vitale) e dell’uomo (“Ecce Homo”).
E a fronte di tutto questo si erge Gesù con una semplice parola, anzi una domanda. Una domanda riportata solo nel IV vangelo. Una domanda che Gesù rivolge a un’anonima guardia che lo percuote con uno schiaffo perché ha osato, secondo il suo intendimento e il suo sentire, ledere la maestà del sommo sacerdote, ma che in realtà raggiunge e si rivolge a tutti gli attori del dramma e a tutti i soggetti che in modo diverso gli fanno violenza: “Perché mi percuoti?”, chiede Gesù (Gv 18,23). “Perché?”. “Perché?”. Per quale motivo? Per quale fine? A che pro? Tante sono le sfumature di questo “perché?”. E tale domanda raggiunge noi, raggiunge i credenti oggi, i lettori del vangelo oggi. Gesù oppone una parola mite, una parola aperta, una domanda, a chi lo offende e brutalizza e deride con la violenza. E Gesù chiede ai suoi discepoli di percorrere la via della mitezza e della inermità. Come quando li fa uscire all’aperto guidandoli verso un luogo “al di là del torrente Cedron” (Gv 18,1), un luogo non protetto, indifeso, noto, facilmente raggiungibile. E qui viene effettivamente raggiunto da Giuda insieme a una coorte, dunque un nutrito drappello di soldati romani, e a delle guardie inviate dai sacerdoti. Non si tratta di una generica folla, come nei Sinottici, ma del dispiegamento di forze del potere militare e religioso. È il potere istituzionale. E Gesù anche qui pone e oppone una domanda: “Chi cercate?”. Una domanda che nella sua mitezza sviluppa una enorme forza, tanto che, scrive l’evangelista, gli avversari indietreggiarono e caddero a terra. A dire la debolezza che spesso si nasconde dietro l’esibizione della forza. Ma soprattutto a dire che anche
qui, che già qui, c’è l’epifania della verità; cioè della pienezza di Dio e dell’uomo. La potenza di Dio si esprime nella mitezza inerme di Gesù che semplicemente pone una domanda e si offre, si dona: “Sono io”. E anche quell’egó eimi, è tanto rivelazione del nome di Dio: “Io sono”, quanto identificativo della persona di Gesù: “Sono io”. C’è una forza nelle parole e nell’atteggiamento di Gesù, paradossalmente più forte delle armi e dell’aggressività dei suoi avversari.
Ma i discepoli? Come resistere davanti a tale inatteso, inspiegabile, sproporzionato, impressionante dispiegamento di violenza, di potere, di forza? Come restare la comunità dei discepoli di Gesù in mezzo a un gruppo armato numeroso e potente, con il loro Signore e Maestro che non oppone che una parola mite, una domanda? Che sembra non difenderli? Come restare fedeli senza la protezione della forza, del potere? Come resistere, potremmo dire, senza protezione, sotto il cielo aperto dove Gesù li ha condotti, nel luogo al di là del torrente Cedron? Pietro risponde riflettendo la violenza degli avversari ed estrae la spada e colpisce. Forse vuole reagire alla remissività di Gesù. Gesto inutile: la forza che il potere può dispiegare (forza delle armi, forza del denaro, forza dei proclami e delle parole) soverchierà sempre la violenza reattiva di chi risponde al male con il male, alla forza con la forza. E Pietro, che potrebbe sembrare coraggioso con questo gesto, in realtà si mostrerà codardo e pauroso nel rinnegare per tre volte Gesù. Ed ecco la parola forte di Gesù, rivolta ai suoi discepoli, a Pietro: “Rimetti la spada nel fodero” (Gv 18,11). Come ricordavamo nell’omelia di ieri: “Voi non così” (Lc 22,26). La verità di Dio incarnata e narrata da Gesù deve diventare la verità del credente, del discepolo. Deve incarnarsi in una prassi di mitezza. Non è forse quello che confessa l’apostolo Paolo quando dice: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10)?
Nel prosieguo del racconto della passione secondo Giovanni Gesù ancora si rivolge con domande ai potenti, tanto al sommo sacerdote (“Perché interroghi me?”: Gv 18,21) quanto a Pilato (“Dici questo da te stesso o altri te l’hanno detto di me?”: Gv 18,34). E il suo parlare si fa sempre più rado. Ed è sempre più soverchiato dal clamore e dalle urla della folla che ne chiedono la crocifissione, dalle domande inquisitorie del sacerdote, dalle rozze violenze fisiche delle guardie e dei soldati, dal calcolo politico di Pilato che, pur non riconoscendo in lui alcuna colpa, per motivi di convenienza e calcolo di potere, lo consegna alla crocifissione. La menzogna, la doppiezza, la pavidità, il non coraggio delle proprie azioni e del proprio pensiero, la dipendenza da altri, come Pilato che nel suo grande potere svende la sua coscienza ai voleri della folla a sua volta manipolata dai sacerdoti, sono elementi di violenza attiva, ancor più esecrabile perché si cela nella non assunzione di responsabilità. Quasi che il nascondimento fosse sinonimo di innocenza. Di tale non assunzione di responsabilità è simbolo magistrale il gesto di lavarsi le mani da parte di Pilato narrato nel vangelo secondo Matteo: “Pilato, presa dell’acqua, si lavò le mani dinanzi alla folla dicendo: Sono innocente di questo sangue; vedetevela voi” (Mt 27,24). Al Gesù che ha lavato i piedi ai discepoli, con assunzione di responsabilità fino alla fine, eis télos, si oppone il gesto del potente Pilato di lavarsi le mani in segno di deresponsabilizzazione. Vi è una compromissione con la sporcizia degli altri che è salvifica, e una pulizia di sé, un’autogiustificazione, che è la peggior sporcizia. La violenza diviene poi meccanica di morte nelle operazioni della crocifissione, dove la violenza è abitudine, è ripetitività, è un mestiere, è quotidianità forse perfino noiosa. La violenza diviene avidità gretta dei soldati che si dividono le vesti del condannato a morte, ormai oggetto da spogliare di tutto. Un senza dignità irrilevante. Nuda vita. In tale contesto, la parola e la sua verità possono essere custodite solo nell’intimo, nell’interiorità. E il silenzio è il sicuro guardiano, il forziere della sacralità della parola. Ed è il luogo intimo che tiene connessa, concentrata, determinata, la persona di Gesù, la mantiene integra, unita e salda. Le parole di Gesù, quanto più egli si avvicina al Calvario e infine sale sulla croce, si rarefanno e divengono confidente, sobria e intensa comunicazione con il discepolo amato e con la madre che si trovano ai piedi della croce. Divengono sussurro che adempie la Scrittura all’interno del dialogo ininterrotto con il Dio che ha parlato molte volte e in molti modi nei tempi antichi, nella prima alleanza. E divengono silenzio. Non solo nel senso che Gesù non risponde nemmeno più a Pilato (Gv 19,11), ma più in profondità, nel senso che il silenzio custodisce la parola di Dio in Gesù, mantiene il suo cuore legato alla parola della Scrittura, tiene vivo il suo desiderio di fare la volontà di Dio fino alla fine, fino all’estremo,
nutre la sua ferma determinazione di obbedire al Padre fino in fondo, sostiene la sua volontà di amare e di essere mite anche nella morte ingiusta e tra le sofferenze. “Ho sete”, “È compiuto”, tutto questo è racchiuso in queste parole, in questi sussurri. In questa emissione di voce che diventa consegna del respiro, trasmissione di silenzio, o, se vogliamo, trasmissione, nel silenzio, di ciò che sta dietro a ogni parola, di ciò che sostiene e porta ogni parola. E come ha ispirato le parole e i gesti di Gesù, ora deve ispirare e guidare le parole e le scelte dei discepoli. Deve conformali alla verità narrata e vissuta da Gesù stesso. “Chinato il capo consegnò lo Spirito” (Gv 19,30). La morte è vivificata. Dal corpo crocifisso di Gesù viene donato lo Spirito che è il compagno inseparabile della Parola, come il fiato regge e porta la voce. Per Giovanni, Gesù è la parola fatta carne, è la verità fatta persona, è la rivelazione di Dio. Che è parola e silenzio. Lo Spirito effuso è il segreto della vita di Gesù, il silenzio da cui sono sgorgate le sue parole e le sue azioni. Parola uscita dal silenzio, come scrive Ignazio di Antiochia, Gesù sulla croce diviene Parola che si fa silenzio per comunicare la sorgente di ogni parola e di ogni azione a quanti credono in lui. La Verità crocifissa si comunica a noi con il dono dello Spirito. Chiedendoci la pratica della mitezza, vera narrazione di Dio e dell’uomo.