La cura per chi è perduto
4 settembre 2022
Luca 15,1-32
XXIV Domenica nell’Anno
di Luciano Manicardi
In quel tempo 1 si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»»
Centro del vangelo odierno è l’annuncio della misericordia di Dio, misericordia che Gesù vive nella sua prassi di vicinanza – scandalosa per scribi e farisei – con peccatori e pubblicani. L’introduzione del capitolo quindicesimo di Luca mostra un Gesù criticato per le sue frequentazioni. Gesù dunque, per motivare il proprio comportamento, narra una parabola (Lc 15,3: disse loro “questa parabola”) che in realtà si snoda in tre parabole, due brevi e molto simili per struttura (15,4-7; 15,8-10), e una decisamente più lunga (15,11-32). Possiamo parlare di una parabola una e trina. Tralasciamo di commentare la terza, quella che costituisce il vertice dell’insieme, la parabola del padre misericordioso, che è già stata commentata nella IV domenica di Quaresima. La narrazione parabolica di Gesù presenta come simbolici dell’agire di Dio dei comportamenti umani che colpiscono e scandalizzano. I vangeli in effetti mostrano spesso Gesù “in cattiva compagnia”: è commensale e ospite di peccatori e pubblicani, si lascia avvicinare da prostitute, si fa prossimo di uomini che le convenzioni sociali e religiose emarginavano. Il giudizio di “perduti”, di “irrecuperabili”, su costoro, spesso era ciò che produceva e nutriva l’emarginazione di tali persone, ma Gesù proprio della loro compagnia si compiace, perché così narra la vicinanza di Dio anche agli ultimi, ai dimenticati e agli scartati. Gesù, semplicemente, avvicina queste persone, le toglie dal loro isolamento sociale e dalla vergogna a cui erano costretti, li coglie come persone, come uomini e donne. Gesù abbatte nella sua pratica quotidiana tabù culturali e religiosi che considerano come “contagiosa” la vicinanza con persone che per etnia o per genere o per condizioni di salute o altro ancora venivano costrette all’isolamento, a vergognarsi di se stesse, a scomparire. Possiamo affermare che, in radice, la misericordia è il considerare l’altro come una persona, rispettandone radicalmente la dignità, quali che siano le sue opzioni, le sue opinioni, i suoi desideri, il suo status e anche i suoi comportamenti negativi, i suoi peccati. Riconoscere la misericordia di Dio implica pertanto il riconoscere in verità chi si è umanamente, vedendo i peccati e le ombre che abitano in noi. E implica l’accettare gli altri senza giudicarli e disprezzarli, che è il problema di scribi e farisei. Per loro, infatti, il comportamento di Gesù mette in discussione l’immagine di Dio che li abita sicché le parole e gli atti di Gesù risultano loro insopportabili. Come si dice di Giobbe, Gesù “distrugge la religione” (Gb 15,4).
Probabilmente anche per i discepoli questi comportamenti avranno suscitato gelosia e invidie, fatto nascere incomprensioni, illazioni e retropensieri su Gesù: del resto, loro già non sopportavano che uno non del loro gruppo operasse guarigioni (Mc 9,38), guardavano con sospetto la donna con cui Gesù si intratteneva al pozzo di Sicar (Gv 4,27), avrebbero fatto scendere un fuoco distruttivo sui Samaritani che non li avevano accolti (Lc 9,54) … La misericordia, quando passa dall’essere un’affermazione teologica riguardante l’invisibile Dio all’essere una pratica esistenziale, un reale incontro di un uomo con altri uomini e donne, con persone con cui si vivono scambi, relazioni, affetti o amicizie, può divenire scandalosa, scomoda, intollerabile. E allora esplode il meccanismo della mormorazione (15,2). Quel male da cui la Bibbia mette in guardia semplicemente narrandola,
mostrandola, affinché chi legge gli episodi delle mormorazioni del popolo d’Israele nel deserto, o le mormorazioni degli avversari di Gesù o dei suoi stessi discepoli (Gv 6,61) possa leggere se stesso e giudicare il tenore delle proprie parole e la qualità del proprio cuore. Ecco dunque che i farisei e i pubblicani mormorano contro Gesù, parlano alle sue spalle dicendo di nascosto ciò che pensano di lui. Gesù allora prende la parola e innanzitutto narra la parabola della pecora perduta, o forse del pastore che si prende cura dell’unica pecora perduta, e va in cerca di essa, lasciando le altre novantanove (15,4-7).
Il lettore si può legittimamente chiedere: è sensato l’agire di questo pastore? La parabola suppone che il pastore abbia fatto la conta delle pecore e si sia accorto che ne manca una. Una su cento. Cosa è più logico fare? Assicurarsi che le altre novantanove siano al riparo o mettersi in cerca dell’unica perduta lasciando le altre “nel deserto” (15,4)? Che il problema non sia fuori luogo lo mostra la versione di questa parabola presente nel vangelo di Tommaso, un apocrifo che fornisce una versione un po’ differente: “Gesù disse: Il Regno è simile a un pastore che aveva cento pecore. Una di esse si perse: era la più grossa. Il pastore lasciò le altre novantanove e cercò quella sola, fino a quando non l’ebbe trovata. Dopo aver tanto faticato, disse alla pecora: Io ti amo più delle altre novantanove”. Il vangelo di Tommaso spiega, motiva la scelta del pastore parlando della preferenza per questa pecora perché è la più grossa. Il messaggio della parabola lucana viene così indebolito: la pecora è oggetto di cura non perché perduta, ma perché grande, bella e perciò preferita alle altre. Il vangelo di Tommaso cerca di motivare l’antieconomica scelta di lasciare novantanove pecore per cercarne una sola. Ma il linguaggio della parabola lucana vuole suggerire l’agire di Dio. Anzitutto si dice che la pecora è “perduta”, non semplicemente smarrita. E “il Figlio dell’uomo”, dirà Gesù al termine dell’incontro con il pubblicano Zaccheo, “è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Dietro alla pecora si delineano le persone, quelle ritenute perdute, lontane, senza dignità, i pubblicani e i peccatori, coloro che vivono nel peccato, coloro che per le loro stesse inclinazioni e attività si trovano a essere giudicati e disprezzati. Si intravedono tutti coloro che vengono chiamati non con il loro nome ma con il nome di una categoria, con un’etichetta, con un nome che non identifica ma che spersonalizza: prostituta, pubblicano, malfattore, bandito, … E il pastore, con il suo comportamento, narra la sollecitudine di Dio per ogni uomo, per ogni persona. Che ai suoi occhi è preziosissima. La parabola diviene trasparenza dell’agire di Dio.
Ma c’è anche un’altra motivazione possibile alla ricerca della pecora da parte del pastore: la responsabilità. Compito del pastore è non perdere nessuna pecora. Il testo dice che la pecora si è perduta, ma il pastore non può per questo esentarsi dalla responsabilità della cura e della ricerca chiudendosi nel “è colpa sua”, “se l’è cercata”, “non avrebbe dovuto fare ciò che ha fatto”, e così via … In ogni caso, nel segreto della coscienza, il pastore quella domanda se la deve porre. E forse il resto del gregge non è stato attento e non si è reso conto quando quella pecora si è attardata o è incespicata o si è azzoppata ed è rimasta indietro. Forse c’è una responsabilità anche del resto del gregge che non ha vigilato … Non sappiamo cosa sia successo a quella pecora, perché si sia smarrita: è caduta in un burrone? È rimasta ferita? Di certo, quando il gregge avanza la pecora ritardataria è minacciata di morte. Se rimane sola non ha scampo e diverrà preda degli animali selvaggi. La sventura per la pecora è perdere contatto con il gregge e restare sola. Allora sì che la perdita rischia di divenire ineluttabile. Ed ecco che il pastore si interroga anche sulla propria responsabilità: ha vigilato a sufficienza? Non è stato attento? E comunque quella pecora fa parte del gregge. Fuor di metafora, quella persona fa parte della comunità del Signore. Ecco dunque che il pastore diviene cercatore e cerca finché non abbia trovato (15,4): qui si sottolinea la durata della ricerca. Trovatala, la mette sulle spalle, fa tutt’uno con essa e, dal deserto dove si trovava, va a casa e convoca amici e vicini per far festa con loro. Forse le altre novantanove si sentiranno un po’ escluse, forse si arrabbieranno, come sarà per il fratello maggiore che sente una festa già iniziata per il minore che è tornato sano e salvo, e lui non ne sapeva niente (15,25-32). Decisamente, l’agire misericordioso di Dio ci mette alla prova, non è affatto facile da accettare, anzi, può suscitare le nostre gelosie e le nostre mormorazioni.
La seconda parabola – quella della dracma perduta, o della donna che cerca accuratamente (15,8) – ripete l’annuncio della prima parabola. Ma se l’annuncio è il medesimo cambiano gli attori
e gli scenari. Non un uomo ma una donna, non un pastore ma una casalinga, non un deserto, ma l’interno di una casa, non l’ambito rurale e pastorale, ma l’ambito economico (è una moneta che viene smarrita). Per un evangelista inclusivo come Luca: il messaggio di Gesù si rivolge a uomini e a donne, a contadini e a cittadini, a ricchi e a poveri (avere cento pecore è avere un gregge di notevoli dimensioni, mentre dieci dracme sono una somma piuttosto modesta), a Giudei e a Greci. Anche la donna, una volta trovata la dracma, condivide la sua gioia facendo festa con amiche e vicine. E la gioia è parte integrante della misericordia. Il Dio misericordioso è anche il Dio della gioia, il Dio che si rallegra del peccatore che si converte, di colui che si riconosce nell’errore e accetta di essere trovato e accolto.