Sotto la guida del corpo

Foto di isco su Unsplash
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11 giugno 2023

Gv 6,51-58 (Dt 8,2-3. 14b-16a; 1Cor 10,16-17)
Corpo e Sangue di Cristo
di Luciano Manicardi

51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»  52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno»


La festa odierna fa memoria del corpo e del sangue di Cristo. Ed è anzitutto una memoria cristologica: ricordiamo Gesù nella sua umanità, nel suo essere segnato da fragilità e caducità come ogni umano, ma anche nel suo saper vivificare la sua condizione di debolezza amando e facendo la volontà del Padre. E così ci insegna che debolezza e fragilità non sono di per sé ostacolo all’amore e al servizio, ma anzi ne sono il luogo e la possibilità. Inoltre è una memoria ecclesiologica. Paolo lo ricorda nella seconda lettura: partecipando al banchetto eucaristico, i credenti comunicano al corpo e al sangue di Cristo, alla sua vita che si trasfonde in loro e li rende corpo. Ma l’umanità di Gesù ci rinvia anche a Israele e oggi noi facciamo memoria anche della carne e del sangue del popolo santo, il popolo a cui appartiene l’ebreo Gesù. Sia il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (vangelo: Gv 6,51-58), sia il discorso che Paolo rivolge ai cristiani di Corinto (seconda lettura: 1Cor 10,16-17) sono innestati su una lettura tipologica della storia d’Israele a cui rinvia direttamente la prima lettura (Dt 8,2-3.14b-16a). Memoria d’Israele, memoria di Gesù il Cristo, memoria della Chiesa, l’odierna celebrazione presenta anche una valenza eucaristica (1Cor 10,17). Questa festa ricorda pertanto la centralità del corpo nella rivelazione cristiana. Ha scritto il teologo Adolphe Gesché: “Nel cristianesimo tutto ruota attorno al corpo. Dal Verbo che si fece carne all’eucaristia; dalle guarigioni di Gesù al corpo che è la chiesa; dalla creazione alla resurrezione e all’escatologia … Il tema della corporeità, come interpretata dalle Scritture cristiane, potrebbe bastare a dare intelliggibilità a tutto il messaggio cristiano. Il cristianesimo sarebbe come un trattato e una pratica del corpo. Dopo il Nuovo Testamento non è possibile parlare né di Dio né dell’uomo né di morale né di vita eterna senza parlare del corpo. Così, tutto si dice e si fa, per così dire, sub ductu corporis, ‘sotto la guida del corpo’”.

Le tre letture presentano un messaggio comune inerente l’appartenenza. Se il vangelo insiste sull’appartenenza a Cristo legandola al “mangiare me”, al nutrirsi di Cristo pane vivo, all’ascoltare e interiorizzare la sua parola fino a porre in Cristo la propria fede, la seconda lettura parla dell’appartenenza alla comunità trattando dell’eucaristia (“benché molti, noi formiamo un corpo solo”); la prima lettura dal canto suo suggerisce che per non appartenere a sé stessi, per essere cioè liberati dall’orgoglio, si deve passare per la via delle umiliazioni.

La prima lettura è giocata sulla polarità umiliazione – orgoglio; essere umiliato – inorgoglirsi. Il brano del Deuteronomio inizia con l’imperativo del ricordo. La memoria ci aiuta a fare qualcosa del nostro passato. Ricordare significa fare qualcosa di ciò che si è vissuto. Far sì che il passato diventi parte di noi senza distruggerci, ma costruendoci. Ciò che viene ricordato, infatti, è anche materia dolorosa: la fame patita, la sete sofferta, gli animali pericolosi, scorpioni e serpenti velenosi. Il ricordo tesse in unità i fili diversi e sparsi di una vicenda e crea una narrazione, dà un posto a elementi sconnessi o frammentari, perché arrivino a costituire un tutto unitario. Recuperando a un senso anche il dolore patito nel passato, si dà un possibile senso all’oggi e si crea la sopportabilità del presente. La memoria ci rende appartenenti alla nostra storia, integra in noi quel passato che rischierebbe di tenerci in ostaggio e di essere un peso non integrato. E ciò che non è integrato, disgrega e disintegra. Nel ricordo che Israele è invitato a vivere c’è l’esperienza della fame nel deserto, vista come umiliazione. “Il Signore ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna” (v. 3); “nel deserto il Signore ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti” (v. 16). La fame come umiliazione: essa infatti ci rende coscienti che siamo degli esseri di bisogno, che non bastiamo a noi stessi. Il cibo è più forte di noi e noi ne abbiamo bisogno per vivere: tutto questo può essere visto come umiliazione. E dietro al cibo come umiliazione vi è un vissuto in cui non si è padroni del proprio destino, ma si dipende da altri. All’umiliazione si oppone l’orgoglio, il voler controllare ciò da cui dipendiamo. La fede si innesta qui, nell’accettare la debolezza creaturale, il corpo bisognoso che siamo, il corpo che è fatto di bisogni naturali, il corpo che è povero, non auto-sussistente, e sapere che, se abbiamo bisogno di nutrirlo, abbiamo bisogno di nutrire anche lo spirito con la parola di Dio. Il testo biblico parla di due dipendenze dell’essere umano, entrambe da accettare. La dipendenza dal cibo e la dipendenza dal Signore e dalla sua parola. Entrambe sono vitali: siamo bisognosi di pane, ma anche della parola del Signore. “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Al tempo stesso siamo bisognosi di parola del Signore, ma anche di pane. L’uomo biblico non è l’essere che dice che “solo Dio mi basta”, ma è colui che gioisce dei frutti della terra, del pane, dell’olio e del vino, e ne ringrazia il Signore. Riconosce cioè il carattere di benedizione del cibo e né lo disprezza, né lo idolatra. Il cibo è memoria del Dio della benedizione. L’orgoglio isola, divide dagli altri e dalla realtà, mentre l’esperienza dell’umiliazione, del divenire coscienti della propria debolezza e dipendenza, ci apre alla libertà di chi riconosce di esistere in quanto appartenente a un corpo.

Appartenenza che è significata nella seconda lettura dalla partecipazione eucaristica. Paolo ricorda, all’interno di un discorso contro il rischio di cadere nell’idolatria, che l’eucaristia, il pane spezzato e il calice condiviso, danno forma al corpo che è la comunità cristiana. “Poiché vi è un solo pane, noi, che pure siamo molti, formiamo un solo corpo” (1Cor 10,17). Questa la sfida difficile della comunità: formare un solo corpo, in cui le membra sono differenti, hanno maggiore o minore visibilità, funzioni diverse, pensieri diversi, e pure concorrono all’unum del corpo. Questa è una sfida particolarmente difficile per il nostro oggi, in cui il senso dell’appartenenza a un insieme, a un’entità che superi l’individualità è sentito come difficile o è apertamente rigettato. La stessa famiglia, sempre citata come cellula di base della società, oggi è diventata la cellula di base dell’individuo. Le entità collettive sono sempre più vissute come a servizio dell’individuo, non il contrario. È una sfida difficile perché il protagonismo individuale, la volontà di emergere, di primeggiare sempre, confligge con l’unità e l’equilibrio del corpo comunitario, perché il pensiero di sé ha spesso la meglio sul pensiero del noi, del corpo comune, perché lo stare al proprio posto viene spesso sentito come insopportabile e si vorrebbe occupare il posto di altri creando così squilibrio nel corpo.

Infine, il testo di Giovanni si situa dopo la memoria del dono della manna durante il cammino nel deserto dei figli d’Israele. Gesù ha appena ammonito i suoi ascoltatori a non mormorare tra di loro (Gv 6,43) ripetendo il peccato dei figli d’Israele nel deserto. La mormorazione è peccato che infrange l’unità del corpo comunitario. Chi mormora non si sente legato agli altri, non si sente appartenente. Ora, il corpo comunitario sta insieme grazie alla parola del Signore che la fonda, ma anche grazie alle parole che i membri della comunità si scambiano e che possono edificare o distruggere. La vivibilità di una comunità cristiana è in buona parte connessa alla qualità e al tenore delle parole che vi circolano. Per questo è essenziale la centralità dell’ascolto della parola di Dio, del vangelo, per questo è vitale per ciascuno nutrirsi della parola di Dio, perché solo così la comunità può strutturarsi sull’unica base solida e può essere sottratta alle parole distraenti e dispersive che spesso sono il carattere delle parole scambiate in una comunità. Spesso la vita comune, la vita ecclesiale è il luogo di quelle “parole vane” che Gesù stigmatizza (Mt 12,36). Per questo è anche così la pratica del silenzio nella vita umana e cristiana, perché solo grazie al silenzio la parola acquisisce peso e sfugge al suo infausto destino di essere leggera, di essere chiacchiericcio, di essere divisiva o escludente, che uccide invece di dare vita. Del resto, secondo il discorso sul pane di vita in Gv 6, Gesù è il pane di vita anzitutto in quanto Parola di Dio fatta carne, Lógos che rivela perfettamente il Padre. Ma poi lo è anche in quanto cibo e bevanda eucaristici, in quanto corpo consegnato per amore che nel pane spezzato e nel vino versato trova il sigillo di una vita interamente donata per amore. Pane e parole: forse in radice il compito spirituale del credente è imparare a parlare e a mangiare. Non suoni semplicistico o banale: parola e cibo sono i luoghi fondamentali di un’appartenenza, sono gli elementi basilari che costruiscono una comunità. Noi siamo legati gli uni agli altri dalla parola, e la tavola è il luogo che fonda la convivenza e rafforza i legami reciproci. Lì, con la parola e con il pane, attorno a una tavola, si edifica un corpo comunitario e si cementa l’appartenenza ad esso.

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