Tentazioni di Gesù, tentazioni del discepolo
9 marzo 2025
I domenica di Quqaresima
Luca 4,1-13 (Dt 26,4-10)
di Luciano Manicardi
In quel tempo 1 Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, 2per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. 3Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane». 4Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo».
5Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra 6e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. 7Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». 8Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto».
9Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; 10sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
affinché essi ti custodiscano;
11e anche:
Essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
12Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
13Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
Con questa domenica si apre la serie delle domeniche quaresimali dell’annata C in cui viene proposta al credente una catechesi penitenziale: nell’ordine, le tematiche della fede, dell’alleanza, della conversione, del perdono e della misericordia saranno al cuore delle cinque domeniche.
Il tema della fede attraversa le letture odierne. La prima lettura (Dt 26,4-10) presenta una professione di fede con cui Israele fa memoria delle meraviglie operate da Dio in suo favore: Israele dice la fede narrando una storia, non con astratte affermazioni teologiche. La seconda lettura (Rm 10,8-13) contiene la professione di fede cristiana: professione che non è un momento puramente verbale, ma coinvolge “bocca” e “cuore” (cf. Rm 10,8-10), interiorità ed esteriorità, l’interezza della persona. Il vangelo (Lc 4,1-13) presenta la fede di Gesù come lotta contro il tentatore e principio di decisione. La fede non è, se non tentata: e questo vale per Gesù come per la chiesa.
La prima lettura presenta una professione di fede che accompagna un gesto cultuale, il rito di offerta di primizie agricole frutto di quella terra che il Signore diede ai padri e che ora è abitata dai loro discendenti. Presentando al sacerdote, cioè portando davanti al Signore le primizie dei frutti della terra che il Signore donò ai padri, il figlio d’Israele riconosce che quella terra è dono anche per lui, che pure è distante qualche secolo dagli eventi ricordati. Con quel gesto e con le parole della professione di fede, egli si riconosce destinatario del dono: “Io presento le primizie dei frutti del suolo che tu Signore mi hai dato” (Dt 26,10). La liturgia suppone un passato e un’assenza. Ma un passato a cui l’uomo si ricollega nell’oggi e un’assenza a cui il rito pone rimedio mediante gesti e parole che, compiuti e pronunciati oggi, creano una continuità con l’evento antico. Il dono della terra non riguarda solo chi l’ha vissuto in prima persona, ma ogni generazione successiva. La parola e il gesto unificano il tempo passato a quello presente ed estendono la signoria di Dio, manifestatasi un tempo ai padri, all’oggi dell’offerente. Il rito cultuale è trasmissione di memoria e, a suo modo, è narrazione di ciò che Dio ha fatto nel passato: pertanto esso deve essere ripetuto di generazione in generazione. Certo, non vi è alcuna dimensione magica, ma tutto avviene nella fede. E la fede, mediante i gesti e le parole prescritte esprime la volontà dell’uomo di sapersi destinatario egli stesso del dono di Dio di cui hanno fruito i suoi antenati. La fede, con gesti e parole, conduce all’inserimento corporeo dell’uomo in una storia che lo precede e in cui egli riconosce la propria origine. La formula da recitare e i gesti da compiere, insomma tutto ciò che è prescritto – ed essendo scritto e prescritto è scisso da un corpo e dunque morto – ritrova vita proprio grazie al corpo che con la bocca e con il cuore pronuncia quelle parole ritenute vitali, con le mani e con le braccia compie i gesti di portare la cesta delle primizie. La professione di fede, poi, è costituita da una narrazione (“Mio padre era un Arameo errante …”) che fa memoria del dono di Dio e il dono di Dio viene riconosciuto mediante un dono da parte dell’uomo: il dono di Dio suscita la gratuità dell’uomo. La fede acquisisce così una dimensione eucaristica costituita dal dinamismo di memoria-dono-gratuità. Il nostro testo dice che la fede è capace di dono e si manifesta nel donare. E qui si comprende anche che, se biblicamente la fede si esprime nel racconto di una storia collettiva, di un popolo, questa storia è anche personalissima. Sicché, come vi è una narrazione comunitaria e liturgica della fede, così esistono tante storie della fede quante sono le persone credenti. Romano Guardini ha scritto che “esistono tanti modi di diventare credente quanti sono gli uomini chiamati da Dio”. Ognuno ha la storia della sua fede da narrare. E questa storia ha almeno tre aspetti.
Si tratta di una storia personale, che coinvolge la totalità del nostro essere. È con il cuore che si crede (Rm 10,9-10), cioè con la totalità del proprio essere personale.
Si tratta di una storia relazionale, comunionale (la fede è “comune”: Tt 1,4): l’“io credo” si innesta vitalmente nel “noi crediamo”. Paolo può dire: “Io so in chi ho posto la fede” (2Tm 1,12), dopo aver confessato che l’annuncio da cui è scaturita la fede egli lo ha ricevuto (“Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”: 1Cor 15,3). Si tratta di una storia di precedenza in cui ci inseriamo con la nostra soggettività (cf. l’esperienza paolina espressa in 1Cor 15,8: “Ultimo fra tutti apparve anche a me…”). Si tratta della storia di una relazione visibile, con quanti vivono accanto a noi, e di una relazione invisibile, con il Signore che abita, “per la fede”, nel nostro cuore (Ef 3,17). Ma dove la relazione con gli altri agisce come autentificazione della relazione invisibile con Dio.
Si tratta infine di una storia non terminata perché la fede non è data una volta per tutte, ma va cercata (2Tm 2,22), custodita (Rm 14,22; 1Tm 3,9; 2Tm 4,7), consolidata (At 16,5); perché in essa si è chiamati a camminare (2Cor 5,7), perché conosce ritorni indietro, dimenticanze e smarrimenti. Di certo essa cambia con il nostro cambiare. Si tratta di una storia in fieri, in divenire.
Passando al testo evangelico, possiamo scorgere una chiave di lettura che muove dall’osservazione solo lucana del v. 13: “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato”. Il momento fissato è espresso da Luca in 22,3, quando “Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era uno dei Dodici”. La mia idea è che in Lc 22,1-46 vi sia il corrispondete ecclesiale di ciò che in Lc 4,1-13 è riferito a Gesù. Ovvero, le tentazioni di Gesù (4,1-13) diventano le tentazioni del discepolo (22,1-46). Tuttavia, la presenza di Cristo e il suo esempio corroborano la fede della comunità cristiana che trova nel suo essere comunità eucaristica il magistero che la situa nella dinamica messianica del servire e la libera dalle tentazioni del potere. Il testo di 22,1-46 si suddivide in tre parti corrispondenti alle tre tentazioni di Gesù. 22,1-23: Satana entrò in Giuda (v. 3); 22,24-30: Voi avete perseverato con me nelle mie tentazioni (v. 28); 22,31-46: Satana vi ha cercato… pregate per non entrare in tentazione (vv. 31.40.46).
Se la prima tentazione di Gesù (4,3-4) verte sul cibo e sul mangiare (“ebbe fame”: 4,2), in 22,1-23 Gesù desidera mangiare la Pasqua con i suoi (22,15) perché non la mangerà più finché non si compirà nel Regno (22,16-17). Alla tentazione di soddisfare il proprio bisogno fino a stravolgere la natura, Gesù risponde con la logica del dono: egli dona il proprio corpo come pane. In 22,1-23 vi è dunque l’esempiocristico (Questo è il mio corpo che è per voi; questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi: 22,19-20); il comando (Fate questo in memoria di me: 22,19; prendete e distribuitelo fra tutti: 22,17); la promessa (Finché non si compia nel Regno di Dio; finché non venga il Regno di Dio: 22,26.18). Al centro della prima scena c’è l’istituzione eucaristica nell’ultima cena, memoriale dell’esodo e profezia del Regno (22,19-20).
La seconda tentazione di Gesù verte sul potere (4,5-8): è la promessa della gloria dei regni della terra. In Lc 22,24-30 la tentazione del potere si presenta ai discepoli (vv. 24-25). Ed ecco il ripetersi dello schema: esempio cristico (Io sto in mezzo a voi come colui che serve: 22,27); comando: Tra voi non è così; il più grande diventi come il più piccolo: 22,26); promessa: (Io preparo per voi un Regno perché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio Regno: 22,29-30). Al centro della seconda scena vi è l’eucaristia escatologica, il banchetto nel Regno (22,29-30).
La terza tentazione (4,9-12) si svolge al Tempio, nel luogo della preghiera, e suggerisce a Gesù di gettarsi dal Tempio: l’angelo l’avrebbe sostenuto e così si sarebbe compita la Scrittura. È la tentazione dell’orgoglio religioso. In 22,31-46 Pietro presume di sé e della sua fede, afferma di essere pronto ad andare fino alla morte con Gesù, ma Gesù prega per lui e per la sua fede. Gesù attesta che deve compiersi la Scrittura che lo annovera tra i malfattori. Ed ecco di nuovo la struttura del testo. Esempio cristico (Gesù, inginocchiatosi, pregava: 22,41; Gesù versa sangue nella preghiera, un angelo lo conforta e sorregge; prega tre volte: 22,41.44.45); comando (pregate per non entrare in tentazione: 22,40.46); promessa (rivolta a Pietro e, attraverso di lui, a tutta la chiesa: Tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli: 22,32). Al centro c’è l’eucaristia vissuta da Gesù nel suo corpo: egli piega il corpo in ginocchio e versa sangue.
Al cuore della chiesa l’eucaristia è magistero di lotta anti-idolatrica. I cristiani devono ottemperare i tre comandi: celebrare l’eucaristia; servirsi gli uni gli altri; pregare. Queste sono tre notae ecclesiae: fractio panis, comunione, preghiera (At 2,42). L’insegnamentodegli apostoli (At 2,42) è intravisto dietro al mandato conferito a Pietro di confermare i suoi fratelli (Lc 22,32). La fede che ha condotto Gesù a vincere le tentazioni deve diventare la fede dei discepoli nella loro lotta contro le tentazioni. Fede nutrita e rinvigorita dall’eucaristia.